Minneapolis, Minnesota, Stati Uniti d’America, nel 1910: siamo nel pieno dello sviluppo della città che letteralmente affonda le sue fondamenta, fatte di cemento ed acciaio, nell’area nord-orientale dell’immenso continente Nord Americano.
Anni antichi per la computer grafica e per l’introduzione al tratto digitale ma parte da un polveroso vicolo della città la storia di Katherine Nash. In quegli anni, la città stava velocemente mutando sotto i colpi benevoli del capitalismo americano, targato Adam Smith e soci: il grano, principale fonte di sostentamento economico per migliaia di famiglie della città, stava per essere lentamente sostituito dal cosiddetto progresso tecnologico produttivo.
Fabbriche, ciminiere, mobilità avanzata con treni e trasporti urbani sempre più efficienti cambiavano radicalmente la vita delle persone e delle famiglie rendendola veloce e frenetica. O almeno così sembrava. Pochi parlano dell’enorme crisi sociale ed economica derivata dalla lenta cancellazione del commercio del grano in quella città. Intere reti ferroviarie che portavano questo importantissimo cereale fuori dall’immenso stato del Minnesota, venivano o smantellate oppure riconvertite per il trasporto civile. Ciò che non riusciva a salire su un treno, passava su gomma. Il sogno americano. In questa cornice, nasce la protagonista della nostra seconda storia.
Una storia che ha dell’incredibile.
Katherine Nash, nasce nel 1910 a Minneapolis, Minnesota, da Carl e Elizabeth Flink. No, non erano consanguinei. No, nessun incesto da soap opera. In quegli anni, seguendo un orrendo retaggio maschilista e sessista di origine medievale anglosassone, la moglie dopo il matrimonio acquistava (o meglio subiva nda) il cognome del marito e lo stesso marito invece acquistava (o meglio rubava nda) tutti i diritti e i doveri della moglie. Katherine studia con passione presso il Minneapolis College of Art and Design (ai tempi veniva chiamato semplicemente Minneapolis School of Art nda) per poi proseguire gli studi artistici presso il neonato Walker Art Center sempre a Minneapolis (La fondazione dell’istituto di ricerca artistica è datata 1927). Partendo dal presupposto che “il destino non perde mai il suo senso dell’umorismo” anche Katherine subisce il patriarcato dell’epoca, vivendo una vita di lotta verso l’emancipazione personale, culturale ed artistica.
Nel 1934 sposa l’avvocato Robert C. Nash e, da qui in poi, la sua vita verrà condizionata dal lavoro del marito che viene spesso trasferito da una parte all’altra del paese per motivi di lavoro. Anche governativo. Lei, dal canto suo, trova la sua emancipazione culturale continuando a studiare e a praticare l’insegnamento, prima come assistente poi come ricercatrice in diverse università americane. Solo nel 1963 i due riescono a ritrovarsi, dopo un periodo di lavoro intenso e di continui inseguimenti obbligati dallo status symbol, nella baia di St. Alban, sul lago Minnetonka sempre in Minnesota. In questi quasi 30 anni di vagabondaggio culturale, passando da una cattedra all’altra e da un laboratorio all’altro, Katherine ebbe la possibilità di studiare scultura, pittura ma anche saldatura, modellistica e addirittura, in alcuni fonti biografiche, si citano “capacità tecniche e pratiche in gioielleria”.
Il suo bagaglio culturale e la sua posizione di emancipazione guadagnata a suon di chilometri percorsi in viaggio fra strade, rotaie e libri, svolgono in questa sua storia incredibile l’importanza che ha l’acqua per una pianta. Seguendo il concetto della negazione radicale, ovvero che ciò che si contrappone si autodistrugge in un perenne scendere verso il basso per cercare la verità assoluta e da lì si risale gradino dopo gradino svolgendo un vero moto perpetuo infinito ed imperfetto chiamato conflitto dell’animo o anche binarismo imperfetto, ripercorriamo e ricomponiamo la sua crescita culturale. Non ci è dato sapere se Katherine aveva dentro di sé tutto questo ma sta di fatto, che molti dogmi, usi e costumi li ha dovute negare con forza per arrampicarsi gradino dopo gradino verso la verità che cercava. Siamo alla fine degli anni 60 quando Katherine comincia a collaborare con il matematico, fisico ed ingegnere Richard H. Williams. Le esperienze visive di Laposky vengono raccolte, studiate, interpretate, modificate, messe alla prova. Da questo incredibile turbine e vortice di studi e sperimentazioni ne nasce uno dei documenti e manifesti più importanti che cambierà per sempre l’arte visiva e il rapporto fra arte e macchina informatica.
Computer Program for Artists: ART 1 non è solo un trattato. Ma un vero manifesto culturale, filosofico, tecnico-scientifico. In poche pagine, i due, descrivono tre passaggi fondamentali e fondanti per la neonata Digital Art che andremo ora ad analizzare in senso critico acuto e senza esclusioni di colpi, ponendoci come osservatori e critici, facendoci aiutare della negazione radicale, presentata poche righe fa.
The artist can become a programmer or software engineer
“L’artista può diventare un programmatore o un ingegnere informatico”
Cominciamo con il porci di fronte a questa frase con senso decostruttivo, sezionandola pezzo dopo pezzo. Cos’è un’artista? Come avviene la trasformazione? Chi è il programmatore oppure un ingegnere informatico? Entriamo da ora in uno stato di apnea scendendo sempre più in basso, estrapolando da queste generiche domande posizioni di conflitto artistico e culturale.
L’artista a chi può essere contrapposto? Alcuni risponderebbero in maniera seccata “A nessuno. L’artista, interprete massimo dell’arte, si pone come l’arte stessa al di sopra del nostro universo percepito”. Niente di più sognante e spensierato. Se vogliamo morire sognatori, fatelo pure. Preferisco iniettare nelle mie vene il senso rivoltoso della rivoluzione stilistica e lessicale. L’artista, posto come essere umano e quindi materico, risponde alle stesse leggi del binarismo imperfetto. Un’artista non può vivere senza un’opera d’arte ma un’opera d’arte può esistere senza l’artista.
Alcune ed alcuni di voi, lettrici e lettori, potrebbero però esclamare: “Per me un albero risulta un’opera d’arte”. La stessa forma materica dell’albero (prendo, per esempio, proprio un albero per collegarmi metaforicamente ad alcuni artisti del 900) non risponde alle regole materiche dell’essere umano, contestualizzando quindi l’opera stessa nelle regole naturali che ci appartengono nel momento in cui ci limitano in un perenne controllo basato su regole, che comprendiamo forse al 10%.
Sono stato molto ottimistico nel quotare al 10% le conoscenze totali dell’essere umano nei confronti della natura che lo ospita e lo modera. Qui dobbiamo rimanere con i piedi ben saldi al suolo. Non solo. Dobbiamo continuare a scavare.
Gli stessi pensatori, sempre più stizziti, ci potrebbero impedire di continuare nella nostra negazione radicale esclamando “Che l’artista è se stesso l’opera d’arte”. Un concetto pescato anch’esso da pensatori come Friedrich Nietzsche o in maniera più fascista da Gabriele D’Annunzio. Ideali così rendono il cammello pesante vero Friedrich?
Liberandoci da questi pesi coscienziosi, ci spingiamo verso un secondo momento di scontro: “L’artista se non esiste, in assenza di un’opera d’arte ma al contrario se un’opera d’arte esiste senza l’artista da dove può nascere un’opera d’arte? Qui l’apnea comincia a farsi pesante ma proviamo a ritornare rapidamente con lo sguardo e con il pensiero a Katherine Nash. L’opera d’arte non può essere finalizzata nell’atto finale del suo manifesto e documento ART1 essendo un composito di tecniche e di intuizioni che sfuggono ad un concetto di costruttivismo dell’opera d’arte derivato da un binarismo perfetto: io penso, io creo.
Allontaniamoci dal materico e comprendiamo i passi che hanno portato, a mio avviso, alla nascita di questo incredibile documento. Una vita basata e vissuta come una perenne lotta e negazione degli status quo degli anni, un’emancipazione creata e generata in maniera autonoma sui libri, nel confronto e, forse, nell’individualismo. L’opera d’arte possiamo essere d’accordo ora tutte e tutti che è sicuramente ART1, ma quando l’ha costruita? Come? Con che tecnica?
È importante a trovare la soluzione del conflitto da me posto? Non credo.
L’opera d’arte esiste quando permane una breccia nella realtà: come un lenzuolo ben teso su tutti i lati, al sole, scosso dal vento essa si tende, si modella, si modifica, ma trattiene per quanto sia possibile tutte la forza del vento che deriva dai pensieri umani e dalle loro contraddizioni. Quando questo vento si fa troppo forte, ecco che il lenzuolo si strappa facendo così intravedere attraverso di esso ciò che si trova dall’altra parte: l’immateria.
L’opera d’arte è anti-materia nel senso più estremo del termine. È un libro? No. Il libro è una prospettiva di osservazione verso quella lacerazione del tessuto fra reale ed irreale. O almeno così si presenta. Da qui troviamo la risposta al primo punto del manifesto a cura di Katherine Nash e Richard H. Williams: l’artista può diventare un programmatore informatico?
La risposta è straordinariamente sì. L’immaterico che si trasforma in codice bianario e codice macchina genera, come fosse un vero e proprio pennello o scalpello, forme e colori mai visti prima. E come un sapiente artigiano, coglie dallo strumento tutte le sue potenzialità e conosce tutti i suoi limiti, dettati dallo spazio e dal tempo.
Si potrebbe paragonare questo esempio, alle nuove figure professionali nel campo della Digital Art sempre più esperte nell’affrontare problematiche tecniche ed ingegneristiche dove la logica e la risoluzione del problema diventano, spesso, obiettivo fondante per sfogare quel vento che strappa il lenzuolo della realtà.
Artists and software engineers can cooperate
Gli artisti e gli ingegneri informatici possono cooperare.
La seconda frase chiave del manifesto redatto, apparentemente di facile comprensione, nasconde dentro ogni singola parola un mondo rivoluzionario.
Ai tempi, gli ingegneri informatici erano visti più come matematici, scienziati piuttosto che hipster alla moda, dediti alla scoperta di nuove tecnologie per migliorare la vita di quella società, sempre più veloce e frenetica descritta nella nostra introduzione a Katherine Nash. In questa frase, troviamo l’unione e la dissacrazione di di due mondi: il primo apparentemente immateriale ed affascinantemente anarchico, il secondo marziale e disciplinato da tecniche binarie perfette.
Qui, Katherine Nash, fa crollare un altro muro. Poniamoci ancora una volta nella posizione di negazione radicale per comprendere al meglio questo passaggio. Cominciamo con il ricordarci cosa si intende per informatica. Citiamo una delle tante enciclopedie che troviamo in rete (appunto nda.).
“L’informatica è la scienza che si occupa del trattamento dell’informazione mediante procedure automatizzate, avendo in particolare per oggetto lo studio dei fondamenti teorici dell’informazione, della sua computazione a livello logico e delle tecniche pratiche per la sua implementazione e applicazione in sistemi elettronici automatizzati detti quindi sistemi informatici.”
Da questa definizione estrapoliamo una parola importante per procedere con il primo scontro: informazione. Trattare l’informazione. Si può quindi dire che la tecnica informatica gestisce, cura, elabora, modifica e modella l’informazione fra pensiero umano e tratto digitale. In questo preciso momento, sto scrivendo queste parole che state leggendo grazie ad un elaboratore informatico che letteralmente stampa e mostra ciò che il mio pensiero impartisce alla mie mani e alle mie dita che premono rapidamente i tasti della tastiera. L’arte può quindi essere resa informazione digitale? L’arte, a differenza di altri svariati mondi che compongono la galassia dell’essere umano, non si contrappone a nulla. Non è logica. Non è un sistema. Non è automatismo. Scendiamo ancora di un gradino e troviamo un’ulteriore parola che proviamo a collocare di fronte all’artista e al ingegnere informatico.
Cooperazione.
Possono questi due protagonisti indiscussi del secondo punto di questo manifesto, quindi, cooperare per uno scopo comune volto alla creazione di quello strappo nel lenzuolo? Può un ingegnere informatico, essere protagonista di quello strappo che ci faàr intravedere la irrealtà? La risposta è rivoluzionariamente sì. Esso può e deve cooperare con l’artista digitale creando così qualcosa di libero dal passato, fuori dalle regole prescritte nel presente e senza padrone come lei stessa dichiarerà nel 1973 al giornale Technolog in merito al suo rapporto con il computer:
“The artist thinks illogically, but he has to go to the programmer. Their two minds produce a conglomerate neither had in mind. The result is like an alley cat, neither expects it.”
L’artista pensa in modo illogico, ma deve andare dal programmatore. Le loro due menti producono un conglomerato che nessuno dei due aveva in mente. Il risultato è come un gatto randagio, nessuno dei due se lo aspetta.
A dir poco geniale. Rivoluzione pura. Il generare uno scontro tecno-umanistico con il fine di creare, un pensiero unico libero dalle maglie delle definizioni del tempo ed indipendente dalle regole imposte.
The artist can use existing software. At that time, ART 1 existed and she chose this path.
L’artista può utilizzare il software esistente. A quel tempo, ART 1 esisteva e lei ha scelto questa strada.
L’ultima frase chiave del manifesto ART 1 analizza, non solamente, il rapporto fra artista e software ma appare come una splendida, nitida fotografia di come Katherine Nas ha voluto vivere la sua vita. In questo caso non è necessaria scomodare la negazione radicale perchè questa frase è essa stessa negazione radicale di usi e costumi, che venivano così estirpate alla radice in poche semplici parole. Come primo dettaglio, possiamo notare, la libertà che l’artista ha nel scegliere lo strumento che più desidera, compreso il software.
Elemento proveniente da un mondo lontano e distante per natura da ideologie che pongono l’essere nel passato, con un moto perpetuo verso la rievocazione. Il solito salto “nel vuoto” che tanto ha fatto male al pensiero filosofico contemporaneo. Ma non finisce qui. La seconda parte è un manifesto libertario affascinante. Lei, una donna, in quegli anni, unica docente donna dell’Università del Minnesota (dal 1961 al 1976) crea lo strumento che sceglierà per rompere le catene della creatività digitale tanto da dare vita al suo stesso manifesto con il termine “esistere”. Un esistere che viene scagliato nel futuro.
Non sceglie parole come pubblicato, redatto. Grazie a tutto questo pensiero applicato, a questo soffiare come il vento fa verso il lenzuolo, Katherine Nash, nel 1969 pubblica la sua opera fondante: Rain Pattern No.3 considerabile la prima opera digitale in assoluto ove la mano dell’uomo comanda in maniera totalitaria il software, senza così lasciarsi sopraffare da algoritmi matematici. La rivoluzione del tratto digitale, ha trionfato.
Dopo la pubblicazione di ART 1 e dopo aver dato il via ad una favolosa rivolta artistica nel mondo dell’arte digitale, Katherine Nash torna verso le sue origini: la scultura. Passione ereditata dal padre. Ma non uscì dai giochi. Katy (così in tante e tanti la chiamavano, da fonti ufficiali) conquistò con diverse battaglie sempre più spazi espositivi per i propri studenti e studentesse tanto da fondare una galleria a Willey Hall che non amministrerà mai, donandola al sindacato studentesco. Si spense a 72 anni nella sua città. Minneapolis. Per concludere questo affascinante viaggio nella vita artistica, e non solo, di Katy vorrei citarla con una delle sue frasi più significative.
If it’s good art, it’s good art.
Whether it’s been done by a man or a woman.
Se è una buona arte è una buona arte.
Che sia stata fatta da un uomo o da una donna.
FONTI / SITOLOGIA / BIBLOGRAFIA
University of Minnesota, USA
Victoria and Albert Museum, London, UK
Medien Kunst Netz – Media Art Net
Compart – Center of Excellence Digital Art
EduEda
Ecologies of Intimacy, Magda Tyżlik-Carver